Interpretazioni

   cit.
È chiaro che nella teoria della informazione classica, «informazione» è solo il computo degli stati possibili di qualcosa, cioè si avvicina molto all’isteresi, che è il presupposto del computo, ma purtroppo si ingenera una confusione tra l’informazione nel senso ordinario del termine e in quello tecnico-informatico. Certo c’è la necessità di trovare un termine forte e chiaro per tutti, però questa chiarezza ha un costo molto elevato. Perché un conto è parlare di informazioni disponibili a tutti, un altro è dire che il libro del web è scritto in caratteri accessibili solo a pochi umani aiutati da automi potentissimi. In questo senso, le informazioni non mancano: qualsiasi comportamento futile o insignificante io abbia online, che sia aprire video per noia, scrivere a caso sui social, o mettere «mi piace» a casaccio, è un’informazione per quei pochi che sanno come utilizzarla per profilarmi. Il che è vero, ma genera una grandissima differenza tra coloro che sanno leggere solo le informazioni in chiaro e quelli che sanno interpretare i documenti: una differenza non meno grande di quella che intercorre tra l’analfabetismo e la cultura, o tra l’alchimia e la chimica. «È ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze». L’infosfera realizza non l’Intelletto Generale, bensì la biblioteca di Babele, in base a quattro caratteristiche principali. [la viralità, la persistenza, la mistificazione e la frammentazione, ndb]
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 52

Un fatto è certo. Di che cosa noi pensiamo, dei piccoli o grandi segreti delle nostre vite, le piattaforme commerciali non sanno che farsene. Se Locke invece di scrivere il Saggio sull’intelletto umano avesse composto – come malevolmente suggerisce de Maistre – un saggio sul proprio intelletto, l’interesse teorico dell’operazione sarebbe stato prossimo a zero. Gli ideali che solitamente animano la riflessione politica e sociale sul web sono tuttavia quelli di una tutela di umani che amano molto la discrezione, in teoria, e per niente, in pratica; e della trasparenza di un ambito che un tempo veniva considerato come lo spazio della trasparenza per eccellenza e che oggi si scopre essere opaco. Entrambi gli obiettivi non possono venire conseguiti in modo semplice – per esempio, con la richiesta del libero e universale accesso ai documenti –, sia perché in questo caso si aprirebbe un conflitto tra tutela e trasparenza, sia perché la docusfera è un ambito intelligibile ma non intelligente. [...]
Se qualcuno avesse suggerito, nel 1919 o magari nel 1929, «It’s the economy, stupid!», si sarebbe evitato che in Germania la crisi economica producesse il nazismo con quel che ne è seguito. Ovviamente, il tempo libero crescente – è difficile scrivere un hate speech alla catena di montaggio – e l’insocievole socialità umana hanno le loro responsabilità. Tuttavia, più di tutto conta l’enorme mole di lavoro non retribuito e neppure riconosciuto come tale che viene erogato attraverso la mobilitazione. Lo scambio tra utenti e piattaforme racchiude infatti un plusvalore particolarmente ben nascosto. Da tutto ciò discende una conseguenza molto concreta: da sola, la tutela della privacy è un distrattore. Come nei vecchi avvisi in stazione, un treno può sempre nasconderne un altro, e la preoccupazione per la privacy maschera processi reali molto più sostanziosi, a partire dal fatto che il web non è interessato a noi individualmente e alle nostre idee, bensì alla forza lavoro dell’intera umanità. Senza dimenticare che la privacy è evidentemente l’ultimo dei problemi per quella abbondante metà del mondo che posta dei contenuti sui social network, e per quella quasi totalità del mondo che dà il proprio consenso all’uso dei cookies, avendo urgenza di ottenere il servizio. Non è questione di riservatezza borghese, di decoro, di fare i fatti propri con la dovuta discrezione, ma di produzione di valore. Trascurare questa circostanza ha un costo, che non è solo conoscitivo, perché sostituisce il problema politico ed economico con una deriva etica che non so quanto porti lontano, giacché il web, come del resto la strada per l’inferno, è lastricato di buone intenzioni, e i primi a enunciarle sono i proprietari di piattaforme, che ci avvisano, mentre stiamo cercando il pronto soccorso più vicino, che la nostra privacy è la cosa più importante per loro, e che sono pronti a rispettarla, purché rinunciamo al servizio.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 66-68

L’immagine emergenziale che propongo in questo libro segue la via inversa. A voler fare nomi anche in questo caso, è Aristotele, o il big bang. Una sublime sovrabbondanza di tempo e spazio ha permesso al mondo ogni sorta di disordini, insensatezze e dissipazioni: l’economia, non dimentichiamolo, vale solo per chi ha poco tempo, e la natura ne ha in abbondanza, se non altro perché c’è da domandarsi se la nozione di «tempo» abbia significato al di fuori di un orizzonte antropico. Cosa diceva Darwin? «Che gran libro potrebbe scrivere un cappellano del diavolo sulle opere maldestre, gli sprechi, la grossolana bassezza e l’orrenda crudeltà della natura!». Ma, alla fine, siamo qui. Ciò vale anche per la società. La stragrande maggioranza dei filosofi che si occupano di società sostiene invece che alla sua base ci sia una «intenzionalità collettiva», che ci renderebbe capaci di interagire socialmente e di condividere princìpi e valori. I trisnonni di questi filosofi parlavano di volontà generale e di contratto sociale, ma non cambia granché. Rispetto al contratto sociale, persino l’idea del linguaggio come dono divino appare molto più ragionevole, descrivendo una emergenza che ha luogo indipendentemente dalla coscienza. Stupisce inoltre che chi rifiuterebbe, e a buon diritto, come superstizione romantica l’idea di un inconscio collettivo accetti l’idea di una coscienza collettiva, e chi rifiuterebbe con sdegno l’una e l’altra aderisca incondizionatamente all’idea di intenzionalità collettiva, che ne è la somma.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 80

Prendiamoci una pausa. È proprio qui che si manifesta l’aspetto più rilevante, dal punto di vista concettuale, della disseminazione. Riflettiamo un istante e pensiamo alle parole con cui Marx, nell’Ideologia tedesca, tratteggia la differenza tra la condizione alienata del lavoratore nella società borghese e il mondo finalmente liberato della società comunista. Nella società borghese, leggiamo, gli esseri umani, trasformati in protesi delle macchine, sono forzati a ripetere lo stesso gesto privo di significato dieci ore al giorno, sei o magari sette giorni alla settimana, e per tutta la vita. Però nella società comunista promessa alla fine delle lotte di liberazione, chiunque potrà fare quel che gli garba, quando vuole: potrà andare a pesca alla mattina, scrivere saggi critici il pomeriggio, accudire il bestiame alla sera. Questo per un giorno, per gli altri deciderà in base al suo umore. La domanda a questo punto è molto semplice: questi liberati non siamo forse noi?
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 123-124

Così fan tutti e tutte, d’altra parte. Non ha senso lottare contro la precarizzazione e chiedere contratti a tempo indeterminato nel momento in cui i lavori specifici del web occupano pochissime persone, e per restare competitive anche le aziende più tradizionali spingeranno all’estremo l’automazione. Come si sarà capito, la mia strategia non consiste tanto nel rimpiangere la scomparsa dei lavori di una volta, bensì nel capire che cosa vien meno con quei lavori, e soprattutto nel riconoscere le rivelazioni sull’essenza del lavoro che ci vengono offerte dalle trasformazioni in corso. Quando ci si poneva il problema dell’occupare il tempo libero lasciato dalle macchine, non si poteva prevedere l’invenzione di una macchina per scrivere universale che ci avrebbe impedito di stare con le mani in mano e ci avrebbe
mobilitati per quindici ore al giorno. Viaggiamo, consumiamo, soprattutto interagiamo in ogni istante con gli apparati deputati alla documentazione di cui ci siamo muniti, e che in genere hanno la parvenza di telefoni o di orologi. Tuttavia, questa mobilitazione, che in senso proprio non ha nulla del lavoro classico, è la più grande produzione di valore che la storia abbia conosciuto.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 130

Riflettiamo un momento su questa condizione senza imboccare troppo precipitosamente le scappatoie dell’alienazione e dell’imposizione tecnica. Siamo condannati a essere liberi, però, proprio come Sartre,
raramente ci poniamo il problema, perché siamo, proprio come lui, perennemente impegnati a scrivere, lui al Café de Flore, noi sul web. E oltre a scrivere lasciamo traccia di ogni nostra attività, tanto che ogni nostra giornata produce documenti che hanno poco da invidiare, beninteso per estensione, alla Critica della ragione dialettica. È questa mobilitazione, che dipende dai bisogni, dagli interessi, dalle forze e dalle debolezze degli umani, il vero grande lavoro del futuro, che non sarà un lavoro part-time, bensì full-time, ma che appunto va riconosciuta come lavoro, d’accordo con la proposta che avanzo in 4.3. Si può lavorare senza faticare, si può produrre valore senza sentirsi alienati. Questo era tradizionalmente un carattere delle professioni liberali, l’eureka nella vasca da bagno. Così, se un filosofo ha una buona idea durante la festa di compleanno di un bambino, se la segna e si riserva di lavorarci appena tornato a casa. L’esempio tratto da una professione rara non deve indurci in inganno, perché con la mobilitazione la produzione di valore, principalmente attraverso i comportamenti, diviene
un fenomeno ordinario. In effetti, se concettualizziamo il lavoro come produzione di valore, e se ammettiamo che la rivoluzione documediale ha come effetto precipuo il trasformare ogni atto in documento, e dunque in valore potenziale, allora il progetto di una settimana lavorativa di quindici ore non sarebbe più sensato del progetto di una settimana in cui, per decreto, si sia tenuti a vivere per non più di quindici ore.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 134

La sindrome di Rousseau. Tutto quello che sappiamo dell’umano depone per un essere che, diversamente da ogni altro animale, nasce schiavo perché scarsamente indipendente. L’idea secondo cui esisterebbe un umano autentico pretecnologico su cui si sovrapporrebbe (in genere nel secolo precedente a quando si scrive, dunque nel Seicento se si scrive nel Settecento, nel Settecento se si scrive nell’Ottocento, ecc.) una patina di corruzione è forse una delle convinzioni più radicate negli umani, e si presenta come una versione aggiornata della nostalgia per l’età dell’oro. Battezzo questa allucinazione storiografica «sindrome di Rousseau»: ci sarebbe un in sé della natura umana, che è un condensato di tutte le virtù. Poi subentrerebbe la corruzione, attraverso la tecnologia e la società, che porta l’avidità, la menzogna, la sopraffazione, lo sfruttamento e tante altre disgrazie. È la sindrome che sta alla base della stragrande maggioranza dei discorsi sulla tecnologia: sempre al telefonino, sempre sui social a litigare (e prima sempre davanti alla televisione), sempre a scrivere anziché parlare con i nostri amici e familiari, cosa siamo diventati, come ci siamo ridotti… Come dire che, se dipendesse da noi, saremmo tutt’altro. È quel male venuto dall’esterno che ci trasforma e ci aliena. Noi, invece, siamo originariamente perfetti e autonomi, ossia portatori di una moralità kantiana in cui il legislato è al tempo stesso il legislatore, e comunque è fonte autonoma di diritto. Ovviamente non è così. Siamo sempre al telefonino, ma non è forse perché Aristotele aveva definito l’uomo come un animale dotato di linguaggio? Siamo sempre sui social, ma non è forse perché Aristotele aveva definito l’uomo come un animale sociale?
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 151-152

Così, se l’umano non fosse stato sin dall’inizio un disadattato, o se si fosse adattato alla vita breve e grama, e soprattutto circoscritta in un ambiente limitato, che la natura gli aveva assegnato, di certo io non sarei qui a scrivere questo libro (e poco male), né soprattutto l’umanità sarebbe diventata ciò che è né ciò che sarà, trattandosi di un processo indefinito ma non infinito. Senza fuoco, ruota, linguaggio e scrittura non saremmo umani migliori o perfetti. Semplicemente, non ci distingueremmo dagli animali non umani, e ci estingueremmo presto, la dotazione degli animali non umani essendo molto più adeguata alla loro vita di quanto non lo sia la nostra: nasciamo nudi, senza unghie o zanne, e soprattutto impieghiamo anni per diventare autonomi, se mai lo diventiamo. Le trasformazioni tecnologiche, invece che alienarci, ci rivelano, nel bene e nel male. Naturalmente inerme, l’umano si sviluppa tardivamente rispetto agli altri animali, e perciò più di questi è bisognoso di accudimento parentale e di protezione sociale: continuiamo a svilupparci anche dopo la nascita, e anche quando abbiamo imparato a camminare e a parlare non smettiamo di imparare, dunque di dipendere dal sostegno tecnologico. Un gatto è autonomo a quattro mesi, un umano, se va bene, a quarant’anni, ma in realtà mai, perché avrà comunque bisogno della società, del linguaggio, della cultura. Questo spiega perché siamo animali così fortemente dipendenti da così tante cose, persino dallo sguardo dell’altro, fosse pure un gatto.
Proprio per questo, ben lungi dall’essere l’unico proprietario del mondo, l’umano è il solo animale insofferente e dunque sofferente rispetto a ogni ambiente, tranne quelle isole non troppo felici in cui gli umani, non avendo necessità di adattamento, non si sviluppano neppure come umani. Così, in quanto animale instabile, inadatto e insoddisfatto, solo l’umano è povero di mondo e bisognoso di tecnologia. Senza dimenticare che uno può certo immaginarsi un concorso virtuoso di circostanze alla base, per esempio, della sopravvivenza dei Lapponi, dei Samoiedi e degli Jakuti nelle loro lande gelide e inospitali: «Ma quello che non è chiaro è perché in generale degli uomini dovrebbero vivere in quei luoghi». Atopico e disambientato, l’umano ha dovuto munirsi di socialità, di scrittura, di pensiero simbolico, incorrendo nella concreta eventualità, inconcepibile per gatti e orsi bianchi, di ferirsi mentre si apre una scatoletta, di non capire una battuta di spirito, di scrivere delle bestialità. Tuttavia, come vedremo estesamente più avanti, tra le più grandi risorse della tecnologia c’è la capitalizzazione, la possibilità di trasferire all’esterno qualcosa che, se dovessimo tenerci dentro, ci ingombrerebbe la mente e, quel che è peggio, scomparirebbe con noi. Non è dunque senza ironia che l’animale più dipendente, limitato, disambientato – dunque meno libero – del creato concepisca la libertà come una sua caratteristica essenziale, il che non fa che accrescerne le dipendenze e le frustrazioni. Se l’umano è dipendente per ragioni costitutive, patisce la libertà come un arto fantasma, cui aspira ma che insieme gli duole; cioè non vede che la libertà è un bene raro, e costituisce piuttosto un ideale da realizzare che non uno stato in cui ci troviamo in forma difettosa, affetti da patologie della volontà.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 157-158

L’ipotesi di uno slancio vitale che distinguerebbe l’organico dal meccanico è non meno problematica o tautologica dell’idea secondo cui ci sarebbe qualcosa di speciale e di unico nel pensiero naturale (o più esattamente nel pensiero umano) che lo distinguerebbe dal pensiero artificiale del computer. È verissimo, ma questo non toglie nulla alla specificità dell’anima rispetto all’automa, che non consiste nel fatto che la prima esprime dei significati mentre la seconda si limita a manipolare dei segni, bensì nel fatto che la prima è un organismo e la seconda un meccanismo. Ecco cos’è la vita: non un fluido misterioso né una potenza occulta, bensì una fine certa. Non c’è alcuna potenza occulta. Gli organismi, è stato detto, sono oasi di ordine in un oceano di caos. Sarebbe meglio dire che sono impegnati in una battaglia contro il caos che, diversamente che nel caso dei meccanismi, quando è persa lo è per sempre. Questo è il modo in cui vive e muore la carne: una crudele dipendenza dall’assunzione di energia, una lotta perdente in partenza contro il disordine, e insieme un senso e una direzione fondamentale che sta alla base di ogni successivo significato. Questo fa sì che un papero e un professore abbiano delle urgenze molto più manifeste e pressanti di un asciugacapelli, e insieme che i loro comportamenti appaiano più motivati, più imprevedibili, e tutto sommato più interessanti, se non altro perché la loro finalità, diversamente da quella dell’asciugacapelli, è tutt’altro che evidente. Non c’è nulla nel professore che lo predisponga necessariamente a scrivere Essere e tempo, né nel papero che lo destini a finire nel piatto del professore, mentre per l’asciugacapelli tutto è scritto, il che è già un ottimo motivo per non impegnarsi nella difesa dei diritti degli asciugacapelli.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 161-162

Riflettiamoci un momento. Nello scrivere questo libro, sto eseguendo un lavoro manuale. Ovviamente, mi si potrebbe obiettare che per muovere le dita sulla tastiera devo avere, nella mente, delle idee, però – oltre al fatto che notoriamente non sempre è così – il più delle volte, per formarmele, ho dovuto fare il contrario. Le mani hanno aperto dei libri, delle pagine, sottolineato delle righe, scritto dei commenti a margine. In effetti, è difficile trovare un atto di comprensione e di espressione che non comporti l’uso delle mani: anche i gentiluomini inglesi che consideravano disdicevole parlare gesticolando dovevano poi rifarsi maneggiando tabacchiere, bastoni, ventagli, fazzoletti. Perché tutto questo maneggio? La psicoanalisi ha una risposta prediletta, e la articola con una grandissima quantità di esempi e di osservazioni. Trascurando le mani si rimuove il corpo e il suo potenziale distruttivo e autodistruttivo, i suoi desideri incontrollati che hanno delle origini remote – si stringono i pugni o si succhiano i pollici già in età prenatale, poi la conoscenza del mondo passa a lungo attraverso la mano e la bocca, e in fondo non se ne allontana mai definitivamente, anche quando riflettiamo sui temi più astratti. Così pure, mentre parliamo gesticoliamo, e non per farci capire – si gesticola anche quando si è al telefonino e nessuno ci vede –, bensì perché fa parte dell’espressione. E mentre ascoltiamo prendiamo appunti che probabilmente non leggeremo mai, o tracciamo degli scarabocchi, oppure (così, almeno, un tempo) accendiamo una sigaretta. Se poi siamo degli psicoanalisti, facciamo anche di più. Freud imponeva le mani, nei suoi esordi come ipnotista, poi si ridusse a carezzare gli idoli che teneva nello studio. Ma sua figlia Anna aveva in studio un intero telaio per tessere, e Jacques Lacan passava il suo tempo a fare dei nodi, in cui esotericamente riteneva di avere condensato la sua teoria del soggetto.
Dunque, la mano scarica e manifesta le forze del corpo e i suoi desideri, e insieme permette di attuarli, afferrando, trasformando tecnicamente il mondo, scrivendo. Rientrerebbe perfettamente in questo orizzonte la definizione che qualcuno diede dell’ultimo Proust, asserragliato nella sua stanza foderata di sughero e invasa dai suffumigi: «una mano che scrive».
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 184

L’aspetto decisivo di questa storia evolutiva consiste proprio nella capacità di un animale particolarmente disadattato di trovare dei rimedi che trasformino il suo limite in un vantaggio e in una possibilità, ovviamente se assumiamo il punto di vista umano: è tutto tranne che ovvio che se un leone potesse parlare, e nella improbabile ipotesi che noi lo capissimo, si dichiarerebbe ammirato per le nostre forme di vita. Siamo all’opposto del titanismo, o meglio il titano da cui discendiamo non è Prometeo. Tutto quanto abbiamo intorno a noi, e che rende la nostra vita più lunga e piacevole di quella dei nostri antenati, ha trovato la propria origine, prima che in un Prometeo che ha rubato il fuoco agli dèi, in un Epimeteo che voleva arrostirsi una salsiccia, e che proprio per questo avvertiva l’urgenza di dominare il fuoco. Non solo la tecnologia, ma il difetto di fabbrica che ci costringe a farvi ricorso è il tratto distintivo non solo dei nostri trisavoli, bensì di ognuno di noi in questo momento. Del tutto banalmente, io non scriverei queste righe e voi non le leggereste se ciò che tanto oscuramente chiamiamo «la natura» ci avesse dotati di zanne o pellicce che ci riparino da aggressori esterni e dal maltempo, e soprattutto se ci avesse provvisti di unghie, utilissime per lacerare e ferire però disastrose nel picchiare sui tasti di un computer. Con dotazioni adeguate all’ambiente, gli umani non avrebbero sprecato il tempo a intagliare selci, a sviluppare sistemi simbolici, a incrementare sviluppi tecnologici di cui la mia scrittura e la vostra lettura sono il risultato. [...]
Se le cose stanno in questi termini, conviene indicare un aspetto che svolgerà un ruolo centrale in 4.4, quando si tratterà di giustificare le buone ragioni di un webfare. La tecnologia più sofisticata che l’animale umano è riuscito a elaborare è l’educazione, ossia, non troppo paradossalmente, la creazione di contesti, come appunto quelli dell’apprendimento, in cui è facilissimo sentirsi imbecilli, cioè inadeguati, e si avverte l’urgenza di por rimedio a questa mancanza con bastoni sempre più efficaci: leggere, scrivere e far di conto. Ossia raddrizzare quelle povere dotazioni naturali, completarle con qualcosa di meglio per metterci al passo con la sproporzione delle nostre ambizioni che ci porta fuori del nostro ambiente, rendendoci ancora più inadeguati di quanto non fossimo. Kant ha scritto che dal legno storto dell’umanità non si può cavare mai nulla di perfettamente diritto: solo l’umanità è un legno storto, e solo l’umanità chiede di essere raddrizzata. Perciò il bastone, il supplemento tecnico, può anche essere il tutore, il legno diritto che può aiutare il legno storto a raddrizzarsi un po’, attraverso appunto l’educazione e la cultura, con i doni e i droni che ci offre.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 188-191

Può essere interessante osservare che supplementi diversi raccontano tutti più o meno la stessa storia. Il medesimo processo che parte dal rafforzamento dell’immediato e giunge alla capitalizzazione della mediazione ha luogo in apparati la cui evoluzione si è svolta sotto gli occhi delle persone della mia generazione. Tale il caso del telefonino, che nasce come macchina per parlare, dunque come protesi e megafono di una funzione immediata, tuttavia molto presto si dota di apparati di differimento temporale, diventando una macchina per scrivere, poi una macchina per registrare. Sino alla condizione attuale della esternalizzazione dell’isteresi per cui il telefonino è soltanto l’intermediario fra l’utente umano e le piattaforme incaricate di registrarne la mobilitazione. Ciò che a torto si leggerebbe come un processo di dematerializzazione o di spiritualizzazione si può intendere più correttamente come un processo di differimento, il cui risultato ultimo è il potenziamento dell’isteresi, e di cui esamineremo l’intera portata in 3.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 195

La traccia, ogni segno su una superficie o impresso nella mente, possiede la caratteristica di spazializzare il tempo (qualcosa che ha avuto luogo prima lascia un vestigio spaziale) e di temporalizzare lo spazio (ciò che si vede nello spazio può generare una successione temporale). Banalmente, le righe che sto scrivendo in questo momento traducono in una porzione di spazio un processo che ha avuto un decorso temporale; la lettura di queste righe, a sua volta, consiste nel trasformare segni che occupano una parte di spazio in un processo temporale. Del pari, l’impressione che posso ricevere se premo la punta di una matita sul palmo della mano, una impressione fissata al qui e all’ora, e che è dipendente dall’azione della matita, si trasforma per la semplice forza dell’isteresi in qualcosa di diverso e antitetico. Può persistere anche dopo che ho tolto la matita, giacché rimane un segno rosso sulla pelle per qualche tempo; soprattutto, può fissarsi nella memoria e può essere rievocata
indefinitamente; infine, come sto facendo in questo momento, si può scrivere, superando la finitezza spaziotemporale della mia memoria. Oppure posso moltiplicare le tracce sul supporto, creando figure complesse o successioni potenzialmente significative, così che quante più tracce possediamo, tante più frecce (reali o metaforiche) abbiamo al nostro arco.
Senza dimenticare che, nessuno di noi essendo Adamo, le tracce ci precedono. Nasciamo in una società piena di libri. Come ha potuto emergere tutto ciò? Ancora una volta la prospettiva pentecostale si rivela inadatta a rispondere. Il confine che separa l’animale che marca il territorio dal presidente che costruisce un muro difensivo è tenue. L’aspetto paradossale per cui all’inizio (di cosa? Diciamo: di tutto) avremmo una traccia, cioè la cosa più astratta che si riesca a concepire, si spiega facilmente in base alla circostanza per cui la traccia è al tempo stesso ciò che c’è di più concreto. Sorprendentemente, ma non troppo, gli uomini hanno imparato a scrivere, ossia a tracciare, prima che a dipingere. Quando sia stata apposta la prima traccia umana è una domanda destinata a restare senza risposta. Troppe difficoltà empiriche e concettuali si frappongono rispetto a questo obiettivo. Che si trovino tracce antichissime non significa certo che siano le più antiche, né che queste tracce possano essere riconosciute con chiarezza come tracce già umane o come tracce che risalgono al nostro passato animale. Un punto però può essere detto con ragionevole sicurezza: poiché l’azione precede sempre la contemplazione, nessuno ha mai elaborato il concetto di «traccia» e poi si è messo ad applicarlo. Prima del far tracce intenzionalmente è stato necessario produrre protesi che supplissero alle insufficienze dell’umano, però a quel punto le tracce c’erano già, e agivano.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 212-213

Anzi, se vale l’ipotesi di un linguaggio originariamente gestuale, la scrittura ha preceduto la parola. In un capitolo di Tristi tropici, Lévi-Strauss ci racconta questa storia.
L’etnologo in trasferta sta studiando una popolazione amazzonica rimasta al Neolitico, i Nambikwara. Ne registra usi e costumi su taccuini, e questo incuriosisce gli indigeni, che a un certo punto provano a mettersi a scrivere anche loro, tranne che – osserva l’etnologo, che nel nostro caso è anche etnocentrico – poiché sono primitivi non capiscono che l’essenza della scrittura è comunicare. Si limitano a tracciare righe (è il nome che danno alla scrittura), e solo il capo, un po’ più intelligente degli altri, mostra di possedere un barlume di comprensione circa il ruolo comunicativo della scrittura. Ma davvero quelli che tracciano righe non hanno capito cos’è la scrittura? Forse ne hanno colto  l’essenza meglio del capo e dell’etnologo, perché tracciare le righe è già scrivere, è già registrare e iterare un codice a barre: l’isteresi precede la comunicazione (ecco la grande rivelazione del digitale, che manifesta, per così dire, cose nascoste dalla fondazione del mondo), che non è affatto la sola e prioritaria esigenza degli uomini, che senza isteresi non avrebbero niente da comunicarsi. La definizione dell’umano come animale dotato di linguaggio è del tutto fuorviante, e non solo se si intende «linguaggio» come «ragione». Molti altri animali dispongono di linguaggio, prima e meglio dell’umano. Per quanto si possa amare parlare di «istinto del linguaggio» e di «neuroni della lettura», resta che né l’uno né gli altri, posto che esistano, avrebbero trovato un impiego qualunque se non ci fosse stata una serie di preadattamenti e di capitalizzazioni tecnologiche che hanno creato le condizioni perché qualcosa come il logos e la cultura potessero sorgere. Concordemente, le storie della scrittura insistono sul fatto che simboli molto simili si ritrovino in alfabeti diversi, sebbene naturalmente con differente funzione, e del resto il fatto che gli alfabeti semitici siano stati presi e trasformati da Greci e Latini non si può spiegare con una desolante mancanza di fantasia. Dipende dal fatto che possediamo dei neuroni della lettura? No, dipende dal fatto che non ci sono diecimila modi per fare delle tracce.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 292-293

Il paradosso del finalismo. Ecco il quarto momento. Quale sarebbe il nostro fine? Semplicemente la nostra fine. Sai che fine! L’imbarazzo derivante dalla intrinseca assenza di finalità delle anime si manifesta non solo nel conio di una nozione problematica come quella di «finalità interna», ma soprattutto nell’idea secondo cui tra i fini dell’organismo ci sarebbe quello di riprodursi. La mossa concettuale è molto chiara: la riproduzione, infatti, sembra introdurre una finalità esterna nella vita organica, quella di produrre altra vita organica. Ovviamente, non è così: l’anima è senza perché, eppure è capace di dar senso, con un fare che precede il sapere. Come è possibile? La finalità interna si può anche tradurre così: un aspetto caratteristico dell’umano è che, rispetto agli automi e agli utensili, non serve a niente. La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce. Le forbici hanno un perché, sono fatte per tagliare, nel nostro caso una rosa. I suoni sono senza un perché, però il linguaggio ha un perché, per esempio dare un nome alla rosa. L’utensile ha una chiara finalità: servire agli scopi dell’utente. Ecco perché l’anima è senza perché mentre l’automa ha sempre un suo perché: la penna serve per scrivere, l’orologio serve per dire l’ora, e se per avventura qualcuno crea una macchina inutile sorge la domanda: non serve a niente, non sarà mica un’anima? La conseguenza cruciale di questo doppio radicamento, nella interiorità somatica e nella esteriorità tecnologica e sociale, è il paradosso del finalismo: un’anima che non ha fini ne impone a degli automi che non hanno anima. Per chi ritenesse improbabile il caso del dono di ciò che non si ha, faccio notare che qui abbiamo a che fare proprio con questa fattispecie: se c’è una cosa insensata è la vita, però è proprio all’interno di questa generale insensatezza che si costituisce il senso.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 345-346

Capitalizzazione. Il secondo componente è la capitalizzazione. Sprovvisti di finalità interna, gli automi sono tuttavia predisposti per l’isteresi, e dunque per la capitalizzazione dei movimenti delle anime attraverso processi di registrazione, iterazione, alterazione e interruzione. Supponiamo che l’anima sia immortale. E che Amleto si dicesse: «ho giurato, certo, però non c’è fretta, ci penserò tra un milione di anni». Tutto il sistema crollerebbe, ma viceversa tutto si tiene perché le anime sono mortali, certe sanno di esserlo, tante altre non lo sanno o non ci pensano, però sono soggette ai bisogni del corpo: la fame, il desiderio, l’ansia, la noia. Proprio il fatto di morire è ciò che dà senso alla vita, prima di tutto perché le dà tempo (più o meno lungo, però mai infinito), e dunque rende significativi promesse, aspirazioni, desideri e felicità che per un immortale non avrebbero senso. A questo punto assistiamo alla genesi del senso, che ovviamente è associata a quella di «fine», e che disegna un movimento circolare, quello che abbiamo visto in opera nei processi di capitalizzazione, nei rapporti tra intenzionalità e documentalità, nella genesi del valore e via discorrendo. Ciò che ha un senso esplicito non può ricevere senso se non da ciò che sta fuori di lui, e restituirlo al mittente come una finalità esterna di secondo grado: un telefonino non ha finalità interne, eppure può spingere qualcuno a tentare una rapina. La nostra differenza non sta tanto in quello che abbiamo in noi, quanto piuttosto in ciò che è fuori di noi: biblioteche, case, supermercati, università, e ovviamente anche galere, lager e (una volta) fabbriche. È ciò che mi permette di scrivere in questo momento, perché a norma di natura dovrei essere morto da quarant’anni e probabilmente per mano di un animale più forte di me. [...]
Intenzione. In questo quadro, il preteso «marchio del mentale» non è che il rapporto tra un corpo e uno scopo, che in una zecca si manifesta nell’attrazione verso il caldo e il sangue e in Alberto si manifesta nello scrivere manuali sull’intenzionalità. Nel parlare comune, «intendere» o «avere delle intenzioni» significa proporsi di fare qualcosa. Tuttavia, nel linguaggio filosofico significa anche rappresentarsi qualcosa nella coscienza. Il carattere distintivo del mentale sarebbe infatti la capacità di farsi delle immagini degli oggetti, mentre gli oggetti non sono capaci di farsi delle immagini dei soggetti. In questo momento mi rappresento lo schermo del computer, che costituisce un contenuto intenzionale della mia coscienza appunto perché possiedo nella mia mente l’immagine dello schermo del computer. Il possesso di questa rappresentazione costituisce la caratteristica distintiva della mente rispetto a ciò che non è mente, quando non addirittura la condizione di possibilità dell’esperienza.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 349-352

Ricordiamolo: non è vero, e non lo è mai stato, che siamo schiavi delle macchine: ne siamo sempre stati i padroni, sia pure riluttanti, perché possiamo immaginare gli umani senza web (noi stessi sino a pochi decenni fa) e non il web senza umani. Se uno, come è sempre possibile, la vede altrimenti, è chiamato a essere coerente con i propri assunti e, invece che insegnare, scrivere libri e citare libri e autori, deve scendere in campo, e lottare contro il sistema, o per lo meno non esserne in alcun modo complice. Mi rendo conto quanto poco cavalleresco sia invitare i propri obiettori a darsi alla macchia in Bolivia, e per giunta senza telefonino, perché li renderebbe troppo facili da catturare. Un buon compromesso potrebbe essere contribuire fattivamente al progresso dell’umanità. Oltre che essere già in parte attuate di fatto, vedremo, resta che molte richieste rivoluzionarie, se espressamente formulate nella maniera in cui vengono presentate dai loro teorizzatori, sarebbero inattuabili. Chi avrebbe infatti il potere di attuarle? Una rivoluzione di una classe che non esiste più o una conversione del credo economico dei possessori di piattaforme? L’attuazione avverrebbe con una riconversione delle anime? Con l’uso della forza? Con arti retoriche di nuova concezione? E che non si voglia passare per lo Stato, e più precisamente, ripeto, per una unione di Stati, che tipo di forza contrattuale potrebbe dare a un webfare? Non dimentichiamo infatti che le piattaforme che contano sono tutte americane o cinesi, e ho qualche difficoltà a vedere un soviet di operai, studenti e saggisti europei intento a contrattare un salario di cittadinanza con il presidente degli Stati Uniti o con il presidente della Cina, ben impiantati a casa loro e insensibili a qualunque minaccia che non sia quella di un altro Stato sufficientemente potente per sfidarli.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, pp. 424-425

Veniamo alla risignificazione. Come sappiamo, il telefonino è stato concepito come una macchina per parlare, che veniva liberata dalla servitù di un filo che lo teneva attaccato a un luogo. Tuttavia, rispondendo molto di più alle esigenze degli utenti che alle intenzioni dei programmatori, si è rivelato una macchina per scrivere e per registrare, e da ultimo si è presentato come una macchina universale. In questo come in tanti altri casi (la scrittura, la polvere da sparo…) l’invenzione si è generata nel rapporto responsivo dei bisogni di un organismo con le risorse di un meccanismo. Dal momento che i meccanismi non posseggono responsività, non c’è da attendersi alcun tipo di invenzione da parte loro: e
possiamo dunque essere certi del fatto che l’invenzione è destinata a rimanere una caratteristica umana che non potrà mai venire automatizzata. L’automa, dunque, non esclude la carne e l’anima, ne ha bisogno più di ogni altra cosa. Così come ha bisogno di quell’ovvia conseguenza della carne e dell’anima che è l’invenzione.
Maurizio Ferraris, Documanità, Roma-Bari, 2021, p. 464

Commenti

Post più popolari